In questi giorni si è posta attenzione alla situazione dei detenuti Italiani per l’esplosione di alcune rivolte legate al Covid-19. Una situazione già storicamente a rischio da anni che viene puntualmente ignorata, nonostante l’allarme delle associazioni di categoria e le numerose multe da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo.

Infatti “Siamo il primo paese europeo con sentenze CEDU non eseguite. Dal sovraffollamento delle carceri alla detenzione illegale nei Cie, il nostro Pase non si adegua abbastanza per tutelare i diritti umani.” (qui).

Per questa ragione ho voluto scrivere un articolo con il mio collega Hr Antonio Signorello che ha avuto contatti diretti con questo mondo per via delle sue attività di psicologo, hr e volontario.

La visione di punizione eterna del sistema-Carcere italiano

Le carceri Italiane ad oggi, contano nella fattispecie “60.512 detenuti, ossia 13.608 in più rispetto alla capienza regolamentare, con un sovraffollamento del 129 per cento”. (qui)

La questione del reinserimento nella società dei soggetti carcerati, è stata affrontata da varie branca della psicologia: la psicologia giuridica e rieducativa. Un insieme di studi che ibridano saperi legati al diritto, psicologia e formazione, ponendo le persone al centro.

Nello specifico “La Psicologia rieducativa, che indaga le dinamiche psicologiche del percorso riabilitativo: studia il significato, il valore, l’utilità e l’effetto sull’individuo della pena o altro trattamento. (art. 27 cost.). In questo ambito può essere collocato il coinvolgimento dello psicologo nella fase di applicazione della pena: art. 13, 70, 80 Ord. Pen. (l. 354/1975).” (Qui).

Occuparsi dei più fragile ed emarginati è compito di uno Stato che ci tiene alla tutela e salute dei propri cittadini. Questo pensiero emerge fortemente nella nostra Costituzione e riguarda esplicitamente anche i detenuti.

L’art 27 della Costituzione infatti recita:

“La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.” (qui)

Si fa chiaramente riferimento allo scopo rieducativo del carcere e non punitivo. Purtroppo questo atteggiamento è assente spesso nella prassi.

Il problema è molto ampio e di tipo culturale. Infatti anche gli stessi cittadini italiani (sia detenuti che in libertà) vengono spesso colpiti da leggi con finalità punitivi e che non instaurano un rapporto di fiducia o responsabilizzazione. Molti sistemi infatti non incentivano i comportamenti virtuosi, ma puniscono quelli “sbagliati”, si pensi anche al sistema di multe o il modo in cui sono pensate molte leggi vigenti.

La nostra società è basata essenzialmente sul concetto di “punizione”, “hai sbagliato” paghi per tutta la vita. Si è vero, ma il singolo detenuto ha diritto ad attenersi agli obblighi della società civile che lo circonda

Recupero e reintegrazione dei tali persone è perciò un problema serio alla data odierna. Se non affrontato il problema del sovrafollamento, inghiotte enormi risorse ed in futuro crescerà ulteriormente. Secondo le statistiche del Ministero italiano di Grazia e Giustizia il costo medio giornaliero di un carcerato per gli anni 2001 – 2013 è oscillato tra i 100 e i 150 €.

Abbiamo quindi tutto l’interesse come Stato al loro reinserimento sociale, sia perché sappiamo che l’assenza di integrazione sociale favorisce maggiormente il poter delinquere per assenza di alternative per sopravvivere. Questo trend impatta su tutti per via del costo di mantenimento del sistema carcerario che sottrae enormi risorse al welfare state e alla nostra economia già in difficoltà. Inoltre come già detto stiamo perfino pagando delle multe per il non rispetto dei diritti umani.

Con il termine reinserimento si intende un processo volto alla rieducazione sia civile che sociale. A monte si firma “un patto educativo”, composto da attività formative, puramente lavorative e colloqui psicologici . Attraverso il reinserimento nel mondo del lavoro i detenuti possono dimostrare all’esterno un percorso di maturità e crescita personale.

I Soggetti coinvolti nel percorso di reinserimento

Il processo di reinserimento sociale coinvolge vari attori, tra cui le Cooperative di tipo B

Sulla base di quanto disposto dal primo articolo della legge di disciplina delle cooperative sociali, queste hanno “lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini” (legge 8 1991 n. 381).

Tali strutture sono orientate a risolvere dalle fondamenta il problema dell’esclusione dei soggetti svantaggiati dal mercato del lavoro attraverso l’erogazione di servizi che si rivolgono ai singoli in modo da offrire loro un valido sostegno all’auto-promozione attraverso percorsi individualizzati di ricollocazione lavorativa e sociale. “In particolare le cooperative sociali di reinserimento lavorativo operano su due fronti: da un lato con azioni di consulenza e orientamento al lavoro, di preparazione professionale e di sostegno all’incontro fra domanda ed offerta di lavoro” (qui).

Lavoro in remoto per gli ex detenuti?

A supporto di questo ecosistema di cooperative troviamo poi anche degli enti che si occupano del lato formativo, erogando corsi ad hoc pensati per questa tipologia di discenti. In particolare spesso si tratta di corsi in cui vengono insegnati mestieri: taglio, cucito, cuoco, pizzaiolo, barista. Su Italia No profi trovate un elenco degli enti che si occupano di questo tema (qui). Su tale questione ci poniamo un interrogativo da HR su come possano evolvere questi ambiti di formazione in una direzione sicura e al passo con i tempi. Sicuramente il lavoro a distanza (remote work) può essere utile in tal senso anche per superare certe paure di molti imprenditori e al contempo permettere una occupabilità migliore a chi rientra nella società civile e vuole mettersi in gioco. Discorso assente nel dibattito italiano e nello specifico sul tema di reinserimento di persone che hanno avuto un passato nel sistema-Carcere.

L’attuale funzionamento infatti prevede la “firma del patto” del detenuto. Non è altro che un documento creato in sinergia tra il Ministero della giustizia e i professionisti del sociale, tra cui psicologi ed assistenti sociali. Giornalmente i detenuti seguono corsi di formazione a seconda del “curriculum” scelto, lingua inglese, percorsi di cucina, recitazione, pittura, idraulica, meccanica. Tutti ambiti sicuramente dignitosi e validi, ma molto legati alle logiche del mercato del 900 che si stanno sempre più riducendo di unità attive sul mercato. Ci si domanda se non fosse il caso di aggiornare queste categorie potendo offrire anche settori spendibili a distanza. Questo elemento è particolarmente importante anche per gli ex detenuti che hanno problemi di salute, cosa piuttosto probabile vista la situazione di “cattività” (visto il non rispetto dei diritti umani) che hanno dovuto vivere durante la pena.

Invitiamo dunque tutte le associazioni e la società civile a ragionare su questo aspetto e cogliamo anche l’occasione per ringraziare esplicitamente (anche se non abbiamo avuto mai dei contatti diretti) l’associazione Antigone e il suo impegno civile nel monitorare i fenomeni.

Nessuna persona dovrebbe essere lasciata indietro e per questo dobbiamo recuperare quell’accezione non punitiva del carcere ma educativa come saggiamente indicato nella Costituzione e dai grandi intellettuali che hanno orientato il dibattito sul sistema penale italiano.

Solo così possiamo migliorare come società e come Stato, andando oltre i pregiudizi e provando ad innovare anche in settori che spesso sono marginali nel dibattito pubblico, ma che nei momenti di crisi esplodono mostrando tutta la nostra fragilità.17