Un tempo si parlava di identità giuridica. La si acquisisce, naturalmente, anche adesso: è uno di quei fenomeni alla base della convivenza sociale. Per intenderci, è quella che si acquisisce al momento in cui i genitori iscrivono all’anagrafe il neonato assegnandogli un nome, o, anche, è quella che ha permesso l’ideazione delle persone giuridiche (in breve: le società) al tempo degli antichi romani.
Si può dire, a seguito della filosofia esistenzialista (Sartre in particolare), che si tratta di una identità esistenziale. In altri termini ancora, più moderni, si può affermare che si tratta di una identità virtuale. Tale tipologia di identità è non direttamente palpabile, non direttamente visibile e non direttamente ascoltabile. In questo senso si differenzia radicalmente dalla identità corporale, la quale, assieme a quella virtuale, costituisce l’identità personale.
L’identità virtuale, esistenziale e giuridica, si manifesta, attualmente, anche attraverso quella che è stata indicata come identità digitale. In quest’ultima categoria, quella dell’identità digitale, alcuni autori (Renna; Nastri) riconducono sia l’identità privata sia quella pubblica.
Per identità privata essi intendono l’identità che manifesta “tutta una serie di espressioni della personalità, che spaziano dagli account su forum o social media (facebook, twitter, Linkedin, Instagram etc…) fino a giungere a procedimenti sofisticatissimi di identificazione”; allorché per identità pubblica intendono ciò che “attiene essenzialmente ad un complesso di dati testuali e biometrici incorporati in un documento rilasciato da una pubblica identità” (cfr. Consiglio Nazionale del Notariato – CNN, studio n. 1-2020/DI).
A parere di chi scrive, e come confermato anche dal CNN, seppur surrettiziamente, questa impostazione genera confusione, poiché all’interno di una medesima categoria (quella di identità digitale) sono fatti confluire dei fenomeni che non hanno niente in comune fra di loro, ossia quello di un generico sinonimo di identità di rete e quello delle informazioni e delle risorse concesse da un sistema informatico pubblico.
Per evitare confusioni sarebbe più appropriato parlare, nella grande categoria della identità personale virtuale (giuridica o esistenziale che sia), di identità informatica, per quanto attiene a quella privata, e di identità digitale, relativamente a quella pubblica.
Tale impostazione parrebbe avvalorata dalla costatazione che quella pubblica, ossia quella digitale, è definita per legge. Nell’art. 1, lett. u-quater), del CAD (Codice dell’Amministrazione Digitale, recato dal D. Lgs. n. 82/2005), infatti, l’identità digitale è definita come “la rappresentazione informatica della corrispondenza tra un utente e i suoi attributi identificativi, verificata attraverso l’insieme dei dati raccolti e registrati in forma digitale secondo le modalità fissate nel decreto attuativo dell’articolo 64”.
Nell’art. 64, a sua volta, è regolato il sistema pubblico per la gestione delle identità digitali e modalità di accesso ai servizi erogati in rete dalle pubbliche amministrazioni.
Si tratta, insomma, del famoso SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale), il quale, attualmente, sta trovando anche una sua specializzazione nel SPID professionale, ossia in un sistema pubblico di identità digitale riservato ai professionisti (AgID, determinazione n. 318/2019) che consentirà di accedere ad alcuni servizi riservati, come per esempio INPS o Agenzia delle entrate, in qualità di intermediario. Tale specifica identità digitale è richiesta ai gestori (privati) di identità digitale, i quali collaborano con l’organizzazione di appartenenza del professionista.
Quanto appena indicato conferma, insomma, che l’identità digitale è quella pubblica. Viceversa, quindi, quella privata non può essere la stessa cosa e a essa si ritiene che le possa essere assegnato il nome di identità informatica.
Giornalista pubblicista – Consulente e ricercatore in materie giuridiche – Docente di diritto
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